B) LO SVILUPPO DELLA PROFESSIONALITA’ DELL’INSEGNANTE:UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE DA CONDIVIDERE...MODIFICARE ...AMPLIARE......da D.Merlo N Maldera L. Tremoloso1) Per ogni insegnante la vita lavorativa è immutabile per ruolo e mansione. Gli anni di lavoro, la partecipazione ad attività formative o di ricerca, la disponibilità e la sensibilità ad occuparsi di aspetti di vita collegiale non determinano mai un cambiamento di vita professionale o di riconoscimento formale. Quasi sempre l’autorevolezza della “propria unicità” professionale è lasciata alla capacità dei singoli docenti che all’interno delle proprie scuole o dei propri gruppi di riferimento riescono a farsi riconoscere, implicitamente, la propria preparazione didattica o culturale ecc. Gli insegnanti non vedono nel loro futuro un cambiamento legato alla storia professionale e anzi, sentono che le competenze e le capacità acquisite non servono per arricchire la scuola o per favorire la crescita professionale di altri docenti ma hanno spesso la percezione di possedere un sapere inutilizzabile. Nella scuola italiana, la professionalità è spesa nel chiuso della propria aula e nessuno è in grado di vedere, di valorizzare e di mettere “a sistema” il patrimonio culturale e di pratiche didattiche presenti sul territorio. Il sistema scuola d’altra parte, non chiede ... non ha grandi pretese.. è organizzato per dimostrare che ogni insegnante è intercambiabile, che non ci sono differenze, come se i contesti e gli ambienti sul territorio fossero tutti uguali.2) Ogni insegnante dovrebbe maturare la propria professionalità in un ambiente di condivisione di scelte culturali e metodologiche. Dovrebbe condividere con un gruppo di lavoro le scelte che condizionano e definiscono l’ambiente reale e concreto dei propri ragazzi\allievi, la collegialità dovrebbe essere il garante dell’innovazione, della ricerca didattica, della crescita professionale dei docenti che lavorano insieme.Ogni insegnante dovrebbe avere una ricca strumentazione di base (organizzativa, disciplinare, metodologica, culturale, psicologica) che gli permetta di prendere, in ogni momento, decisioni coerenti per l’apprendimento, la formazione, l’educazione, l’emancipazione culturale dei propri allievi.Troppo spesso invece, l’unico strumento che definisce contenuti, tempi di attuazione, metodologie da utilizzare in classe è il libro di testo. Il libro di testo dovrebbe essere di supporto ma è, in molti (troppi casi) “il regista" - nemmeno così occulto - del processo didattico.Se l’insegnante – in una scuola di massa - non ha un quadro concettuale della disciplina, non in funzione della sua strutturazione storico-logica, ma dell’apprendimento, e, contemporaneamente, non possiede uno schema di riferimento dei modi attraverso cui procede la comprensione, ma si affida alla articolazione lineare del testo, alla strutturazione “monumentalizzata” che esso dà della disciplina, e conclude con esso il suo apparato metodologico, finisce per essere una comparsa, un ripetitore più o meno efficace di una serie di conoscenze organizzate a monte del processo formativo, in funzione della strutturazione logica della disciplina, ma non della comprensione reale e partecipata da parte dell’allievo.Un insegnante che si affida al solo testo, diventa massa anch’esso, portatore di una professionalità debole e come tale facilmente sostituibile, privo di riconoscimento sociale. Le sue prerogative professionali finiscono, al più, per definirsi sul piano delle qualità psicologiche, su quello – non secondario, ma non sufficiente - delle capacità relazionali.Questo, a tutt’oggi, sembra essere il profilo più diffuso di docente; nonostante anni di corsi e di iniziative di aggiornamento, l’esperienza SSIS, i contributi dei centri di ricerca didattica presso le Università.Purtroppo si è ancora lontani nelle scuole dalla prospettiva educativa (teorizzata in specifico da Chevallard - vedi nota - per la matematica, ma che si può leggere in senso più ampio), per cui il compito principale dell'insegnante dovrebbe essere quello di ri-contestualizzare e personalizzare un sapere (quello disciplinare, normalmente decontestualizzato e depersonalizzato), dando ad esso senso e “vita”. Per poi, nel tempo, e nel corso del percorso formative, ri-decontestualizzarlo e ricondurlo progressivamente vicino alla sua forma astratta e formale. Il processo sotteso a questo compito presuppone di assumere la didattica, e la professionalità ad essa sottesa, come un vero e proprio lavoro di “ricerca”, di riflessione e azione, o, meglio, di progettazione, di pratica e di analisi. Solo così è possibile costruire quel patrimonio di casi e di approcci che consente all’insegnante di utilizzare “al momento”, nella situazione contingente della classe e per il singolo allievo, le risposte adeguate. Inutile dire che più ricca è la versatilità, la ricchezza strumentale di cui si attrezza, più facilmente il docente sarà efficace nei contesti più diversi, più facilmente diventerà capace di adattarsi ai processi di trasformazione, all’evoluzione sociale e strumentale che negli anni deve affrontare.Ma l’insegnante non è considerato - né molti degli stessi docenti si sono mai pensati come se lo fossero - un “ricercatore”. Qualcuno, tuttavia, lo ha fatto e continua a farlo costruendo, per se stesso, un patrimonio di conoscenze. E’ una ricchezza appartenente ai singoli che è stata e continua ad essere dispersa costantemente. Non è mai stato considerato quel valore in termini di arricchimento della comunità e della struttura formativa. L’esperienza e le condizioni in cui versa l’Istituzione scolastica dimostrano che se non è 'di sistema', la professionalità non produce guadagno. Se fallimento c’è stato negli sforzi per la formazione docente, fin qui messi in campo, è nel fornire una teoria e una pratica che, se raramente ha prodotto cambiamento di mentalità nei singoli, mai si è posta, invece, il problema del cambiamento in tal senso della organizzazione del sistema nel suo complesso.PROPOSTESi potrebbe prevedere un percorso professionale diversificato alla fine della carriera? E’ possibile prevedere un tempo di lavoro dedicato ai propri allievi e un tempo di lavoro dedicato all’accompagnamento, all’accoglienza e al supporto degli insegnanti appena entrati nella scuola così da non perdere il patrimonio didattico e metodologico che ha acquisito negli anni, ogni docente?
Chevallard Y., 1985, La transposition didactique, Editions La Pensée Sauvage.
Proprio in questi giorni, riflettendo sul fatto che dopo tanti anni nella stessa scuola sento il bisogno di cambiare per avere stimoli nuovi, ho pensato che tutte le competenze raggiunte e la professionalità acquisita all'atto della richiesta di trasferimento non valgono un fico secco. Interesserà un punteggio dato dalla mia vecchiaia e dagli anni di continuità in una data sede. Certo non è gratificante...
RispondiEliminaMi vergogno di quanto poco si faccia per accogliere i colleghi neo assunti, di come in pochi mesi li vedo appiattirsi. Tarpiamo le ali a chi arriva con entusiasmo e voglia di fare, senza dedicare a loro tempo e attenzioni che sarebbero dovute e importanti.
Ma non pensi che il problema più grosso sia che, nel caso di una persona che come te ha ampie competenze sul piano informatico, ci sia anche un po' di frustrazione dovuta al fatto che nella realtà scolastica, questa come altre professionalità, non siano mai accettate e valorizzate come dovrebbero e soprattutto non ci possa essere un vero confronto paritario con i colleghi non sull'utilità o meno delle tecnologie ma soprattutto sul loro uso didattico concreto? Io penso, come ho già scritto da più parti (prendo a prestito un'espressione usata da Maria Cantoni con cui lavoro ad una formazione di matematica in una rete di scuole torinesi) che occorra veramente una 'task force' che obblighi tutti gli insegnanti a formarsi certe competenze ormai indispensabili non solo per la scuola ma anche per sopravvivere nella sociale civile. Tra le competenze chiave per la cittadinanza il riferimento all'uso di tutti gli strumenti a disposizione da quelli cartacei a quelli informatici e multimediali è sottolineata almeno in due punti (comunicare, acquisire e interpretare l'informazione) e non sono punti da poco. Ma se dobbiamo formare gli allievi e noi non siamo preparati... stiamo ancora lì a discutere se usare il computer fa bene o fa male... che si fa? e quale è l'impatto sull'apprendimento? non ci interessa?
EliminaRiporto qui un commento di Rino Coppola inserito in un altro post:
RispondiEliminaRino Coppola scrive:
Trovo le riflessioni di Donatella estremamente utili...
Utili per cosa? Provo a spiegare in breve.
Nella mia commissione di lavoro (Programmazione e Valutazione) formata da una quindicina di insegnanti della Primaria e dell'Infanzia, stiamo predisponendo un documento da trasmettere a tutti gli insegnanti del circolo.
Tale missiva conterrà alcune schede di attività pratiche o di gioco da noi inventate corredate da un breve elenco di competenze che a nostro avviso quelle attività testerebbero.
Le manderemo in giro con una lettera d'accompagnamento chiedendo alle colleghe di farci pervenire altre idee, altre attività da trasformare in schede per raccoglierle sul sito della scuola o da distribuire al fine di sperimentarte come si può insegnare per competenze.
Lo racconto perchè leggere dell'insegnante ripetitore, comparsa, ripetitore e della necessità invece di cercare la comprensione reale e partecipata da parte dell’allievo,mi serve a sentirmi meno solo, a convincermi che anche in un'epoca di basse motivazioni e profonda stanchezza, sia possibile lavorare bene.
Potreste dire -Perchè solo? Il lavoro lo stai condividendo con altri!-
Le colleghe della commissione (alcune delle quali perplesse per l'attività proposta e sostenitrici della filosofia gattopardesca del tutto cambia perchè nulla cambi e quindi insensibili alla “nuova terminologia lisboniana”) si sono adoperate nella ricerca di attività “diverse” dalla pratica quotidiana precisando che si può giocare alle bancarelle, usare il microfono, mimare le storie lette e rappresentarle... solo occasionalmente, perchè il resto della scuola è fatto di altro.
Inoltre sostengono sia meglio considerare queste attività di gioco come stimolo per favorire l'acquisizione di competenze, e non come occasioni in cui “valutare” le competenze.
Penso ad una “scuola laboratorio” in cui le proporzioni tra “attività tradizionali” e attività di “gioco - sperimentazione – laboratorio” siano invertite; in cui l'occhio dell'insegnante sia rivolto al gesto intero e non al particolare, alla canzone e non alla nota.
Ma va bene così.
E' bello lavorare insieme ai colleghi al di fuori del testo, è bello fare gli artigiani dell'insegnamento, è bello accettare il punto di vista altrui e negoziare pur di recuperare una dimensione di team che si sta perdendo.
Mi piacerebbe vedere che tipo di schede preparate per far lavorare per competenze perché ultimamente ho visto di tutto e di più sulle competenze e non so se poi alla fine intendiamo tutti la stessa cosa e soprattutto se condividiamo le competenze su cui far lavorare gli allievi, ad esempio, a livello di scuola dell'infanzia e primaria.
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